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Il Direttore del Centro Studi si è recato nell’ottobre 2018 a Marsiglia nei luoghi in cui la scrittrice ha vissuto nel 1941 e in cui ha ambientato fatti ed emozioni di quei giorni trasponendoli nel romanzo “Transito”, questo, con le parole di Anna Seghers, il resoconto del viaggio.

“Transito”, Marsiglia e Anna Seghers

gennaio/marzo 1941 – ottobre 2018

 

di

Davide Rossi

Anna Seghers in fuga da Parigi nell’estate del 1940 verso Pamiers e poi a Marsiglia dai primi di gennaio ‘41 al 24 marzo dello stesso anno vede, osserva, soffre si nasconde dai tedeschi che la cercano e la vogliono morta, come i suoi libri bruciati. I dolori e le esperienze di questa ricerca di un esilio sicuro, durata un anno, che si somma ai sette vissuti nei pressi della capitale da lei e dalla sua famiglia, confluiscono in un romanzo, “Transito”, in cui le peripezie burocratiche, la speranza e l’abbattimento, si alternano insieme a un mondo sempre più disperato, impoverito e impaurito.

Seidler, protagonista del romanzo, seduto in una pizzeria marsigliese che non poteva che essere “Chez Angel”, nel 1941 già aperta, visto che ha davanti il porto e il forte di San Nicolas, anche se oggi non si vedono per via delle costruzioni del secondo dopoguerra, in cui i tavoli o guardano in direzione del mare o verso il forno a legna, racconta di come sia scappato da un campo di concentramento nazista nel ’37, per ritrovarsi due anni dopo internato dai francesi, in quanto tedesco, sebbene antifascista. L’arrivo nel ’40 della Wehrmacht in Francia getta i prigionieri in uno stato di agitazione: “Davanti a noi era la fine del mondo, domani, questa notte, subito. Giacché l’arrivo dei tedeschi doveva essere qualcosa di simile. Nel nostro campo incominciò una danza infernale. Alcuni piangevano, altri pregavano, qualcuno tento di suicidarsi e certi vi riuscirono. Altri ancora decisero di fuggire, di fuggire davanti al giudizio universale.” Lui riesce ancora una volta a scappare e a raggiungere Parigi. Il popolo è in fuga davanti all’aggressore: “Carri alti come case di contadini, carichi di mobili, di gabbie di uccelli, di bambini e di vecchi, di capre e di vitelli, autocarri con tutto un convento di suore, una bambina che si aggrappava con una manina a una ciocca di capelli della madre, automobili dove sedevano giovani donne, rigide nelle loro pellicce salvate per miracolo, automobili trascinate da buoi perché non c’era più benzina, donne che portavano con loro bambini già morti o morenti. Solo allora mi sono chiesto perché questa gente fuggiva. Dai tedeschi? Loro erano motorizzati. Dalla morte? Senza dubbio li avrebbe raggiunti anche lungo la strada.” I nazisti infatti raggiungono i fuggitivi e intimano stridenti ordini in tedesco: “nel tono di quegli ordini risuonava qualcosa di terribilmente chiaro, di bassamente brutale. Poche storie, non avete difeso il vostro mondo e quindi, poche storie, svelti, lasciateci il potere!”.

Lo scrittore Weidel si suicida, incapace di reggere psicologicamente un nuovo incontro con la barbarie e al protagonista non resta che portare le carte di questi al consolato messicano, avendo ricevuto lo scrittore un invito da parte del governo centro-americano per un soggiorno permanente. Seidler allora si reca con altri fuggitivi, massimamente esuli della Repubblica Spagnola, all’ambasciata messicana, ma non ne riceve alcun aiuto e lo indirizzano a Marsiglia, tuttavia lo scambiano per lo scrittore stesso e qui inizia una sua peregrinazione tra due identità, alternativamente possibili secondo le necessità. Passata la frontiera bacia il primo soldato francese che incontra: “eravamo commossi, ci sentivamo liberi”, ma subito commenta, scoprendo presto la contiguità coi nazifascisti del governo di Vichy, quanto “questo sentimento fosse ingannevole”. Anzi l’ingresso nella Francia occupata è agghiacciante.

Lei conosce la Francia non occupata dell’autunno 1940? Le stazioni, le scuole, le piazze e le chiese erano piene di fuggiaschi del nord, delle terre occupate e di quelle diventate proibite, Alsazia, Lorena e Mosella. Resti di quel triste fiume di gente, che già nella mia fuga verso Parigi avevo considerato solo come resti. Molti erano morti lungo la strada, o in un vagone, ma non avrei immaginato che tanti altri ne nascessero.” Il protagonista scavalca masserizie per trovare un cantuccio nella stazione di Tolosa e vede una madre allattare il figlio: “come era invecchiato il mondo nel corso di un solo anno! Il lattante sembrava un vecchio, la madre aveva i capelli grigi, i due fratellini alle spalle della donna avevano un volto sfacciato, maturo e triste. Lo sguardo di quei ragazzi era vecchio, perché a loro nulla era stato nascosto, dal segreto della morte a quello della nostra origine.” I treni sono pieni di soldati depressi e sbrindellati, che tuttavia eseguono gli ordini di marcia, chiamati a difendere postazioni che poi a poco a poco sono cedute ai nazisti, molte volte anche prima del loro arrivo, anche attraverso la rimozione di quei graduati contrari alla collaborazione con gli hitleriani. Eppure “quegli ordini di marcia assurdi, erano almeno qualche cosa a cui attenersi, la sostituzione di un ordine sublime, di una grande parola o della Marsigliese perduta.” Tra i mobilitati un invalido, “il tronco e la testa intorno ai quali pendevano pezzi di una uniforme vuoti al posto delle gambe e delle braccia. Lo sistemammo tra noi, gli accendemmo una sigaretta tra le labbra, non avendo più mani e improvvisamente si mise a piangere.

Treni, camion, carretti, un’incessante fuga verso sud, intralciata dalla burocrazia di Pétain, decisa a far prevalere un imbarbarimento medievale a colpi di dazi e balzelli e soprattutto estorsioni, pena la consegna ai tedeschi, di quanti non sono in regola coi documenti, nonché “avvocati furbi come volpi che si dividevano il prezzo della liberazione con gli stessi accalappiacani”, accalappiacani, ovviamente, di esseri umani, “una schiera interminabile di funzionari che vagava bramosa di giorno e di notte”. “Grande è stata la mia meraviglia per il fatto che le autorità, nel disfacimento generale, potessero scovare procedure sempre più lunghe per classificare, registrare, timbrare uomini, sui sentimenti dei quali tali autorità avevano perduto ogni potere.” Tali funzionari sarebbero stati in grado, sostiene sorridendo pur tra le difficoltà Anna Seghers, di registrare anche le grandi migrazioni di popoli: “ogni vandalo, ogni goto, ogni unno, ogni longobardo”. Al protagonista manca l’autorizzazione di uscita dal campo di internamento francese, dal quale è scappato, ma non finge di averlo perso, perché l’esperienza gli ha insegnato che “i documenti bruciano più difficilmente del metallo o della pietra.” Poiché molti hanno documenti che tuttavia non sono idonei alle circostanze: “si agitavano per ottenere dei passaporti, dei lasciapassare, come se si trattasse della salvezza della loro anima.”

Il protagonista resta sgomento di fronte a una ragazza ebrea, giovane e bellissima, portata via dai collaborazionisti, i suoi amici francesi restano demoralizzati e impotenti ad osservare la tragica scena, tanto da indurlo a commentare: “da una sconfitta, presto ci si rialza, quando si è sani e giovani, ma il tradimento paralizza anche i giovani.”

La Francia di Pétain non è il paradiso immaginato, anzi, li obbliga a rimpiangere Parigi. “Là davanti agli occhi avevamo un nemico duro e terribile, insopportabile e odioso, ma ora cominciavamo a pensare che sarebbe stato meglio quel nemico visibile a questo male invisibile e misterioso, a queste voci, a questa corruzione, a questi inganni.”

L’accidentato viaggio trova la sua meta, Marsiglia, “nuda e bianca come una città africana”.

È un crogiuolo tempestoso di sentimenti, del protagonista e di Anna Seghers, che li ha vissuti arrivando nella città mediterranea. “Una grande calma m’invade sempre quando qualcosa mi piace molto. Pensai quasi di essere giunto alla meta. Pensai di trovare in questa città finalmente tutto ciò che cercavo, ciò che avevo sempre cercato. Quante volte mi ingannerà ancora questo sentimento alle porte di una città sconosciuta.” E ancora: “mi ero sempre chiesto negli ultimi mesi dove sarebbe potuta sfociare tutta quella fiumana, quelli che scappavano dai campi di concentramento, i soldati dispersi, i mercenari di tutti gli eserciti, i traditori di tutte le razze, i disertori di tutte le bandiere. Qui tutto defluiva in questa fiumana, la Canebière, e lungo la fiumana al mare, dove infine v’era pace e spazio per tutti.”

Martinica, Orano, Siam, Portogallo, Casablanca, lunga la via della canapa, appunto Canebière, necessaria per i cordami marinareschi prima dell’avvento della plastica, in una babele di lingue, la scrittrice come il suo protagonista ascoltano in tutti i caffè della via e della riva nomi di luoghi lontani trasformarsi in speranza di salvezza. In particolare al Mont Ventoux, oggi locale di una catena di fast food, situato all’angolo con il quai des Belges, proprio sulla riva, qui si incontrano tra un’umanità varia e complessa, in alcuni casi dolente, in altri gaudente, sentimenti frammisti che non impediscono di vivere emozioni autentiche. “Quando ho capito che l’azzurro in fondo alla Canebière era il mare, il porto vecchio, ho provato, dopo tante assurdità e miserie, l’unica vera gioia accessibile all’uomo in ogni momento, la gioia di vivere.” Tanto da credere, per un attimo, in un destino benevolo: “pensai, come spesso capita ai giovani, che tutto ciò che mi era accaduto era servito a condurmi lì e che quindi era stato un bene.” D’altronde tutti hanno un solo desiderio: imbarcarsi, e un solo timore: restare. “Partire, partire da questo mondo in rovina, da questa vita distrutta, da questo pianeta.” Al Mont Ventoux le parole si sommano alle parole: “chiacchiere in molte lingue giungevano al mio orecchio. Storie di navi che non partivano più, di navi arrivate, di navi bloccate, di navi catturate, di navi affondate, di uomini che volevano mettersi al servizio degli inglesi o di De Gaulle, di persone che dovevano tornare ai campi di internamento senza sapere quando ne sarebbero potute uscire, di uomini che partivano lasciando le donne che amavano, di madri che avevano perso per colpa della guerra i loro figli. Chiacchiere nuove e secolari dei porti, chiacchiere dei fenici e dei greci, dei cretesi e degli ebrei, degli etruschi e dei romani. Allora per la prima volta ho riflettuto seriamente su tutto, sul passato e sul futuro, l’uno uguale all’altro e impenetrabili allo stesso modo, così come sulla condizione che nei consolati viene chiamata di transito e – nel linguaggio comune – presente.”

Riprendendo la peregrinazione tra i consolati, ritorna, dopo Parigi, a quello messicano: “Esistono paesi coi quali si è in confidenza fin da bambini, senza averli mai visti, ci emozionano e non sappiamo nemmeno perché. Un’immagine, il dilungarsi di un fiume sull’atlante, il semplice suono di un nome, un francobollo. Del Messico niente mi commuoveva, niente mi era familiare. Non avevo mai letto una riga su quel paese, neppure quando ero bambino. Né avevo udito qualcosa di quel paese che mi fosse rimasto nella memoria. Sapevo solo che là c’erano petrolio, cactus ed enormi cappelli di paglia.” Qui incontra un direttore d’orchestra che gli spiega dove è Caracas, la capitale venezuelana in cui sta cercando di arrivare, via Messico, avendo perso le tracce dei suoi tre figli tra Polonia, Cecoslovacchia e Gran Bretagna. Di più, il musicista gli spiega la complessità del sistema dei visti, dei transiti e delle autorizzazioni. “Aveva già avuto il contratto e sul contratto il visto e sul visto il transito. Tuttavia la concessione del visto d’uscita si era trascinata così a lungo che nel frattempo il transito gli era scaduto e a causa del transito il visto e a causa del visto il contratto. La settimana precedente gli era stato concesso il visto di uscita ed ora attendeva giorno e notte la proroga del contratto, da cui dipendeva la proroga del visto, condizione essenziale per ottenere un nuovo transito. Gli chiesi confuso che cosa fosse questo visto d’uscita. Mi fissò incantato. Ero davvero un nuovo arrivato che ignorava tutto. La spiegazione fu lunga. È il permesso per lasciare la Francia.” Il protagonista resta perplesso, suscitando l’ilarità del direttore d’orchestra, non riesce infatti a capire: “perché trattenere degli uomini che desiderano solo lasciare questo paese, in cui, se rimanessero, sarebbero arrestati.” La risposta svela l’inconsistenza della Repubblica di Vichiy: “i veri padroni sono i tedeschi e poiché lei discende probabilmente da quel popolo, saprà che cosa significa l’ordine tedesco, l’ordine nazista che vanno decantando. Non ha nulla in comune con il vecchio ordine del mondo. È una specie di controllo, i nazisti non perdono l’occasione di controllare chi parte dall’Europa. Può darsi che trovino in questo modo un sovversivo da loro ricercato.” Esattamente la condizione di Anna Seghers, che in quei giorni marsigliesi avrà visto presto svanire la gioia di essere in riva al Mediterraneo. La situazione si complica perché anche con il biglietto, il transito, il visto, la proposta di lavoro e il controllo dei nazisti attraverso il visto d’uscita, se qualcuno è stato registrato in un campo di prigionia deve avere il foglio di congedo. Il protagonista, oramai con una doppia identità, sa bene che con il suo nome potrà muoversi solo con questo foglio, che miracolosamente otterrà da un compagno di fuga che incontra in città e che, con grande preveggenza, ne aveva sottratti alcuni prima di abbandonare la prigionia.

Resta il problema di come mettere insieme questa sequela di documenti. “Se lei è ebreo con l’aiuto degli ebrei, se è ariano con l’assistenza cristiana, se lei è un rosso, bene, il cielo l’aiuti, con l’aiuto del suo partito o di uno dei suoi, potrebbe imbarcarsi in qualche modo.”

I consolati impongono poi i loro tempi burocratici, siderali, infiniti: “incomincia a misurare il tempo secondo i ritardi dei consolati, è una specie di tempo astrale, nel quale i giorni terrestri valgono milioni di anni, perché interi mondi scompaiono prima che un visto di transito arrivi”.

Amarezza, stanchezza e preoccupazione gettano nello sconforto il protagonista che si accascia sul letto del suo modesto albergo e si sente “confuso e miserabile”, come su una nave in balia delle onde, ancorché sognata e desiderata. Il sonno è frammentato: “da ogni parte mi assaliva un chiasso, come se dormissi su un ponte viscido fra marinai ubriachi. Sentivo valigie scricchiolare e rotolare, come se fossero mal riposte nella stiva di una nave scossa dal mare. Udivo maledizioni francesi, addii spagnoli e, ancora più lontano, ma più penetrante di ogni cosa, una piccola, semplice canzone che avevo ascoltato per l’ultima volta nella mia patria, quando ancora nessuno sapeva chi fosse Hitler e lui stesso meno degli altri. Mi dissi che veramente stavo solo sognando, poi mi addormentai.”

Le necessità lo riportano al consolato messicano: “a mala pena si distingueva l’aquila sul cespuglio di cactus dello stemma della Repubblica, alla sua vista il mio cuore si è agitato in un sentimento di nostalgia al contempo dolorosa e gioiosa, una speranza indefinita. La speranza di un mondo lontano, di una terra promessa e sconosciuta.” Il consolato è preso d’assalto dai repubblicani spagnoli, che spesso litigano violentemente, anche se si tratta di “una banale discussione con un enorme spreco di passione”. La sovrapposizione tra il protagonista e la scrittrice è totale quando il console messicano afferma: “Le ripeto per l’ultima volta, se vuole partire, convinca i suoi amici che hanno sollecitato il visto al mio governo che si attivino per farsi garanti che il nome sul passaporto, Seidler, corrisponde al suo pseudonimo di scrittore, Weidel.” Infatti Anna Seghers ha un passaporto ungherese a nome di Netty Reiling in Radvanyi, il nome da coniugata, il marito Laszlo è infatti stato trasferito dal campo pirenaico di Le Vernet a quello di Les Milles nei pressi di Marsiglia e qui si trova insieme a tanti artisti e antifascisti, da Robert, figlio di Liebknecht, al pittore e scultore di temi erotici Hans Bellmer al pittore Max Ernst, da cui può uscire due giorni e una notte la settimana per sistemare le carte relative alla partenza. Laszlo dorme con la moglie nella piccola pensione, l’hotel Aumage chiuso alla fine del Novecento, in rue de Relais, minuscolo vicoletto all’angolo con corso Belsunce, dove ancora oggi c’è un negozio di cappelli presso cui Anna si è concessa la sola frivolezza di quei giorni difficili, con loro i figli Pierre e Ruth, che nel frattempo frequentano la scuola pubblica francese. Per Anna Seghers sarà l’amico scrittore Bodo Uhse ad attivarsi con forza per farle avere l’invito in Messico e a confermare la sua identità, tanto che il passaporto ungherese di Anna Seghers portava un duplice errore, la faceva nascere il giorno di san Gennaro, il 19 settembre, e non il 19 novembre e cinque anni dopo, nel 1905 e non nel 1900. I pescatori proprio lungo quel corso stendono la mattina presto le reti, di ritorno dalla pesca. Il corso e le case circostanti, nelle quali oltre ai fuggitivi vivono i marsigliesi, sono abitate oltre che dagli uomini del mare, da operai e proletari dediti al piccolo commercio. L’alba li richiama al lavoro: “lo strillone, le mogli dei pescatori, le bottegaie che aprivano i loro negozi, gli operai che si recavano al loro turno di lavoro, appartenevano alla massa di coloro che non pensano mai di partire. Come agli alberi, come ai ciuffi d’erba di corso Belsunce a loro non viene mai in mente l’idea di partire. Anche se quell’idea sfiorasse la loro mente, per loro non ci sarebbero mai biglietti. Le guerre sono passate sopra di loro, così come gli incendi e le vendette dei potenti. Per quanto fossero numerosi gli esuli spinti avanti dagli eserciti, questi erano poca cosa se confrontati con tutti coloro che restavano.” Il protagonista che ha perso tutto, genitori e fratelli, sente quella varia umanità come i suoi fratelli e le sue sorelle. Tale sentimento lo porta a indugiare nell’osservare queste donne e questi uomini che si muovono attorno a lui e il suo sguardo, lo sguardo di Anna Seghers, riannoda il presente in cui vivono con il passato e il futuro nella dimensione epica e mitica dei luoghi, delle persone e della realtà. “Un giovane aiutava una ragazza a fissare i pesanti battenti delle porte di un negozio. Poi con una rapidità sorprendente l’aiutò ad accendere una piccola stufa di ghisa, sulla quale lei si mise a cuocere delle pizze. Subito arrivarono i primi clienti, tre prostitute che uscivano da una casa vicina con na luce rossa ancora accesa, il giovane bigliettaio di un autobus, alcuni commercianti. La venditrice di pizze, senza essere bella, somigliava tuttavia alle più belle ragazze delle vecchie leggende, ovvero a quelle ragazze che restano sempre giovani. Aveva sempre preparato la pizza sul declivio di quella collina che porta al mare, in padelle vecchie come il mondo, mentre passavano altri popoli, dei quali oggi non si sa più nulla, continuando certo a preparare la pizza quando altri popoli arriveranno.”

Quella di Anna Seghers, come quella del protagonista del suo romanzo, è una vita in bilico, tuttavia entrambi pur nelle avversità hanno consapevolezza di un privilegio inestimabile che li rende felici: “ero libero, la mia camera era pagata per tutto il mese, ero ancora vivo, una triplice fortuna che pochi potevano dividere con me.” Una felicità certo mitigata dal dolore e dalla miseria circostanti, dalle delazioni di chi per un po’ di “piselli, sapone e maccheroni”, denunciava i vicini di casa, a chi, esule spagnolo e con i capelli bianchi, era vinto e spossato dalle attese, dopo aver perso i figli difendendo la Repubblica e la moglie nella fuga attraverso i Pirenei.

In un giorno di sconforto il protagonista si trova presso la chiesa Saint Victor, poco più avanti dell’antica pasticceria che sforna navette, i grissini dolci dal profumo di fiori d’arancia. “Che freddo che faceva! Nella chiesa di Saint Victor e anche nel portale mezzo aperto stagnava un profondo crepuscolo piovoso. Pure qui, all’interno, il maestrale piegava le fiammelle dei ceri davanti agli altari. Come era vuota la poderosa navata della chiesa. Eppure continuavano a entrare delle persone che subito sparivano. Sentii un debole canto, senza capire da dove provenisse, perché la chiesa continuava ad essere vuota. I fedeli sembravano inghiottiti da un muro. Li seguii giù per una scala, nelle viscere della terra, dove questa diventava roccia. Più scendevo e più chiaro diventava il canto. Già dalla cripta guizzava una luce che illuminava gli scalini. Dovevamo trovarci sotto la città, anzi, mi sembrò sotto il mare. Qui veniva celebrata la messa. I capitelli corrosi delle antichissime colonne si trasformavano, per le sottili volute di fumo, in figure grottesche di animali sacri. Il prete vecchissimo aveva una barba bianca e una stola pure bianca, preziosamente ricamata. Assomigliava a quei preti antichi, sorpresi nella funzione sacra quando la loro empia città stava per sprofondare nel mare, perché i suoi abitanti avevano disprezzato le minacce di colui che aveva creato quelle rocce. Nella loro giovinezza, eternamente pallida, che non doveva mai maturare, i chierichetti portavano attorno alle colonne le candele, cantando. Le sottili nuvole di fumo davanti ai nostri volti si trasformarono in un’onda tremolante. Il mare rombava certo sopra di noi. Improvvisamente il canto finì. Con una voce debole e allo stesso tempo aspra, caratteristica dei vecchi, il prete incominciò a inveire contro di noi per la nostra vigliaccheria, per la nostra falsità e per la nostra paura della morte.” La predica termina quando il diluvio finisce e le stelle fanno capolino nel cielo, ma tutti si portano a casa le parole del vecchio sacerdote, “chi ha costruito questa chiesa capace di resistere al tempo, alle guerre e a due millenni, sapeva che per costruire sulle rocce del Mediterraneo non bisogna avere paura.” Poi il vecchio tuona le parole di Paolo di Tarso nella seconda lettera ai Corinzi: “Tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Sono stato spesso in viaggio, tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei miei connazionali, pericoli da parte dei Gentili, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli.” Le sue parole impongono il silenzio: “la chiesa sembrava sprofondare sempre più, timorosi e tremanti di vergogna e di timore i fedeli continuavano ad ascoltare il silenzio irritato del vecchio prete. Allora ricominciò il canto dei ragazzi nella sua insostenibile purezza angelica, risvegliando in noi speranze insensate, finché il suono morì. Ma cavernoso rispondeva un suono terribile, che obbligava al pentimento, veniva profondo dal petto del vegliardo. Soffocavo, sgattaiolai di sopra, l’aria era fredda e chiara.”

Poiché navi dirette per il Messico non ce ne sono, tanto per Anna Seghers, quanto per il suo protagonista, occorre un visto di transito negli Stati Uniti. Anna Seghers e la sua famiglia rimarranno dal 10 giugno 1941 a fine mese a Ellis Island, guardando la statua della libertà e Manhattan, infatti per la miopia della figlia Ruth, ereditata dalla mamma, ma interpretata come una malattia nervosa, verrà negata loro la possibilità di sbarcare a New York e di procedere via terra verso Città del Messico, con una pausa in California dove Bertolt ed Helene Brecht e molti altri compagni li aspettavano. Nei neutrali Stati Uniti, in cui inglesi e nazisti suscitavano simpatie a gruppi contrapposti ma ugualmente significativi, i Seghers apprendono il 23 giugno che gli hitleriani hanno aggredito il giorno precendente l’Unione Sovietica, gettandoli nello sconforto e nella preoccupazione. Della ressa del consolato statunitense di Marsiglia parlano molte pagine del romanzo, vi si affollano molti ebrei sostenuti dalla comunità ebraica statunitense e tra loro “una mezza dozzina di bambini che si aggrappavano ai loro genitori e alla nonna, una donna gialla e rigida, così vecchia che non sembrava possibile fosse stata scacciata da Vienna per ordine di Hitler, ma da un editto dell’imperatrice Maria Teresa”, segno che ad Anna Seghers, pur nelle situazioni più difficili, non è mai mancato uno sguardo affettuosamente ironico verso i suoi correligionari. Al consolato a stelle e strisce lavora: “con passo leggero, come l’angelo del trono del Signore, quella giovane creatura dai piccoli seni e dai riccioli chiari, che, lontana e immune da tutti i mali sembrava attraversare la guerra sopra una nuvola rosa.” Vi è anche una famiglia numerosissima, che tuttavia, nonostante il visto, non parte per rimanere a vegliare l’anziana decana, la quale, essendo cagionevole, il visto non lo ha ottenuto, “una vecchia immobile, come mummificata, con tutti i segni della sua decrepitezza e di una fine imminente.”

Seidler cercando un medico, trova con questi una donna bellissima, scopre presto che si tratta di Marie, la vedova di Weidel, di cui si innamora, ma alla quale non sarà mai in grado di dire la verità, anche perché molti le segnalano, come anche i consolati stessi, che Weidel è in città. La donna, combattuta tra il dolore per un uomo che ama e che da mesi non vede, dopo che scappando lo ha lasciato a Parigi, e la speranza di saperlo a Marsiglia, vive sentimenti contrastanti, coltivando la speranza di poterlo riabbracciare. Quando ci si interroga su quanto tale scrittore abbia fatto per il popolo tedesco, la risposta della scrittrice è assolutamente autobiografica: “Ha combattuto per ogni parola, per ogni frase della sua lingua materna. Si è battuto perché i suoi brevi racconti talvolta un po’ pazzi fossero così belli e così semplici che potessero piacere a tutti, ai bambini non meno che agli adulti. Ciò è sicuramente fare qualcosa per il proprio popolo.” Anna Seghers infatti riterrà sempre che la lingua potesse essere un potente mezzo per riscattare la Germania e il suo popolo dall’infamia barbara e violenta del nazismo. Ancor più toccante il richiamo ai racconti brevi e un po’ pazzi, che rimandano all’esordio seghersiano con “I morti dell’isola di Djal”.

Seidler, che ha tutti i documenti per partire, quando capisce che Marie ama solo Weidel, decide di restare. Marie invece sale su quella nave in cui le hanno detto che si imbarcherà  lo scrittore e alla fine troverà davvero il marito, nel profondo del mare insieme ai passeggeri con cui viaggiava. Anna Seghers, suo marito e i suoi due figli dopo la Martinica e Ellis Island in Messico riusciranno invece fortunatamente ad arrivare.

Seidler, che ha deciso di restare dichiara: “voglio condividere qui con i miei compagni i giorni buoni e quelli cattivi, le gioie e le persecuzioni. Quando inizierà la Resistenza imbraccerò un fucile.” Quando gli giunge la notizia dell’affondamento del transatlantico di Marie, al dolore associa un sentimento al contempo di distacco e di speranza: “mi sembrava che la nave fosse partita nella notte dei tempi e che fosse una nave da leggenda, che naviga per l’eternità e sopravvive a tutti i viaggi, a tutti i naufragi. Del resto la notizia non ha impedito che masse di profughi continuassero a mendicare un’iscrizione per la prossima partenza.” Così il romanzo si chiude come era iniziato, il protagonista torna nella pizzeria. “Mi sono seduto voltando le spalle all’ingresso, perché ora non attendevo più nessuno. Ma ogni volta che la porta si apriva, trasalivo come prima. Mi facevo forza per non voltarmi. Ogni volta interrogavo la nuova ombra che si disegnava sul muro intonacato di bianco. Marie poteva apparire come dei naufraghi appaiono d’un tratto su una costa, grazie a qualche salvataggio miracoloso, o come l’ombra di un morto viene strappata agli inferi da sacrifici e da ardenti preghiere. Davanti a me sulla parete i frammenti sconnessi di un’ombra cercavano di farsi ancora una volta carne e sangue. Potrei nascondere quest’ombra nel mio rifugio, in quel villaggio solitario dove diventerebbe partecipe nuovamente di tutte le speranze e di tutti i timori che spettano alla vita dei veri esseri viventi. A un moto della lampada, o forse al solo chiudersi della porta, l’ombra sulla parete impallidiva, come il miraggio che abitava i miei pensieri. Poi tornavo a guardare solo il fuoco vivo del forno, che non mi stancavo mai di contemplare. Al massimo potevo immaginarmi che stavo aspettandola ansiosamente, come prima alla stessa tavola. Lei percorreva ancora le strade della città, le piazze e le scalinate, gli alberghi e i caffè, i consolati, per cercare colui che ama. Cerca senza tregua in questa città e in tutte le città d’Europa che io conosco e persino nelle città fantastiche di strani continenti a me sconosciuti. Mi stancherò prima io di aspettare che lei di cercare un introvabile morto.”

Oltre tre quarti di secolo hanno impetuosamente cambiato Marsiglia, anche se la pizza la si può ancora mangiare da “Chez Angel”, magari incontrando “due coppie con le mani e le ginocchia intrecciate e così immobili da sembrare che il più fuggitivo di tutti gli incontri li avesse saldati insieme per l’eternità”, perché il mistero dell’amore vince il tempo, infatti la modernità e la tecnologia hanno compiuto impetuosamente la loro irruzione, eppure, camminando tra la Canebière e il porto, il vento è sempre lo stesso e a volte pare di sentire risuonare le parole stupende di Anna Seghers e forse di riconoscerne la fuggevole chioma in una ragazza che corre davanti a noi, d’altronde è lei che ci ha insegnato fin dal suo esordio letterario ne “I morti dell’isola di Djal”, come di nuovo in “Transito”, la forza esorbitante e prepotente dei sentimenti, delle preghiere selvagge, furiose e ardenti, quelle capaci di restituirci chi amiamo.

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