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Pierre Radvanyi, il figlio di Anna

di Davide Rossi

Passare una giornata con Pierre Radvanyi è una bella soddisfazione.

È un allegro, lucido, determinato uomo di oltre ottanta anni che porta nel volto, nelle parole e nel cuore, quei sentimenti grandi e profondi che hanno contraddistinto sua mamma Netty Reiling e suo papà Laszlo Radvanyi. Ugualmente condivisi dalla sua compagna da oltre mezzo secolo, Marie France, come Pierre delegata al Festival mondiale della gioventù di Berlino del 1951. La vita, soprattutto la giovinezza di Pierre, nato il 29 aprile 1926, i suoi primi 19 anni, sono un’avventura rivoluzionaria come poche. Merita di essere ascoltata, raccontata e ricordata. Intanto la sua mamma diventa la signora Netty Radvanyi, rinuncia alla cittadinanza tedesca per diventare cittadina ungherese e più tardi, dal 1946, messicana, e questo nome terrà nei documenti fino al 1949, quando diventerà cittadina di una nuova nazione. È importante sottolinearlo perché se Netty Radvanyi avesse assunto ufficialmente nei documenti lo pseudonimo scelto come scrittrice, sarebbe stata trovata e uccisa e con lei la sua famiglia. Netty riesce invece a rendere anche ridicolo, oltre che tragico, il male dei nazisti che con furia omicida la vogliono morta, perché questi assassini alla conquista dell’Europa le danno una caccia disperata, ma non si premurano della verifica anagrafica, della quale per altro era a conoscenza la polizia berlinese di prima del nazismo. La nota scrittrice Anna Seghers infatti non esiste. O meglio esiste ed è Netty Radvanyi, ma coloro che le danno la caccia, frugano nelle carte e nei documenti, cercano quel nome: “Anna Seghers” che diventerà scritto nero su bianco solo quando nascerà una Germania democratica che le tributerà la presidenza dell’Unione degli scrittori, una nazione di cui lei stessa sarà fondatrice, in una mite notte d’ottobre del ’49, la DDR.

Il giovane Peter Radvanyi è del tutto ignaro che diventerà, prima per necessità e poi per scelta, Pierre. Pochi giorni prima di compiere sei anni inizia il suo primo anno di scuola. È l’aprile del 1932. Aprile, perché la scuola della Repubblica di Weimar segue ancora il calendario prussiano. Le lezioni iniziano dopo pasqua.

La situazione politica è convulsa e sempre più preoccupante, mamma Netty è una conosciuta e amata scrittrice comunista, papà Laszlo presiede e organizza l’università popolare promossa dal partito. I comunisti della KPD sono forti e a Berlino ancor di più, ma i nazisti sono prossimi alla presa del potere, alle elezioni del 6 novembre ’32 raccolgono un terzo dei voti. I comunisti sono terzi con il 17%. Peter accompagna la mamma alla oceanica manifestazione di chiusura della campagna elettorale a Berlino, per Peter è l’occasione di vedere, seppur da lontano Ernst Thälmann. I suoi genitori hanno incontrato alcune volte Thälmann e frequentano con maggiore assiduità il segretario cittadino del partito Walter Ulbricht, un giovane capace di guidare i compagni all’assalto in Alexanderplatz delle camionette della polizia che venivano ribaltate per liberare i compagni e le compagne. Tutto ciò accadeva anche alla vigilia delle elezioni, quando i socialdemocratici, che controllavano la polizia, organizzavano le retate delle prostitute per impedire loro di votare, essendo nota la loro vicinanza al partito comunista. Poco dopo le elezioni Peter però si prende la scarlattina. Da novembre non va più a scuola. Ha fatto però in tempo a imparare a leggere e scrivere nel tedesco dei caratteri gotici. Sua sorella Ruth viene subito spedita da Hedwig, la nonna materna, a Magonza, e da nonno Isidor. Ruth ha quattro anni, non immagina certo che non metterà più piede a Berlino per più di vent’anni.

La salute di Peter migliora ma il medico consiglia prima riposo, poi un soggiorno in mezzo alla buona aria della Selva Nera. Mamma Netty lo accompagna e promette che passeranno alcuni giorni insieme, in modo che non si senta troppo solo. Anche in questo caso Peter, come sua sorella, non sa che Berlino la rivedrà solo nel 1951.

Arrivano la mattina del 27 febbraio ’33, il posto è bello e Peter chiede di poter pattinare sul ghiaccio. Sarà la sua prima e ultima volta. Alle nove e mezza di sera lui e la mamma sono sulla pista. L’altoparlante annuncia l’incendio del Reichstag. Mamma Netty capisce subito che deve correre a Berlino. La situazione sta precipitando. Si scusa con Peter e parte nella notte. Rientra a casa la mattina, Laszlo non c’è, è già fuggito. Al partito le diranno probabilmente dove. Nasconde alcune carte, mentre ancora è indaffarata, suonano alla porta, i vicini, simpatizzanti nazisti, hanno segnalato la famiglia Radvanyi come comunista. Portata in questura è rilasciata perché cittadina straniera. La polizia di Weimar non è sbrigativa come quella nazista, che la sostituirà nel giro di pochi giorni, al contrario è profondamente formalista e invita la cittadina ungherese a ritornare a casa e di tenersi a disposizione. Cittadina ungherese che non ne parla la lingua. Sì, perché Laszlo, che mai più metterà piede nel suo paese natale, è scappato nel 1919, a 19 anni, dopo che la repressione fascista dell’ammiraglio Horty si scatena contro i comunisti, protagonisti della breve Repubblica dei consigli guidata da Bela Kun. Laszlo in quei giorni ha fatto parte del “Circolo del sabato”, coordinato da György Lukács. In Germania consce Netty, la quale sposandolo ne condivide la cittadinanza. Arrivata a casa Netty raccoglie l’indispensabile, chiude la borsa, esce dalla porticina del retro, si volta, sospira. Capisce bene che non vedrà mai più la casa di Am Fischtal 56, quella in cui ha cresciuto i suoi figli nei loro primi anni, in cui ha vissuto intense pagine d’amore. Con l’aiuto del partito arriva a Zurigo e ritrova Laszlo e da qui nell’aprile ’33 si trasferiscono a Parigi. Trovano casa a Bellevue – Meudon. Nel giugno ’33 riabbraccia i figli a Strasburgo. Nonna Hedwig ha recuperato Peter e li accompagna entrambi. È un momento emozionate. Anna Seghers intanto è ricercata dalla Gestapo, che ha una sola idea, la vuole morta. I libri di Anna bruciano fuori dall’università Humboldt nella notte del 10 maggio ’33.

I mesi estivi di quell’anno passano felici in vacanza, nei pressi di Calais. A ottobre Peter è iscritto alla scuola comunale. I bambini francesi sono anti-tedeschi. Netty consiglia a Peter che è bene che si faccia chiamare Pierre. Sarà Pierre per sempre, nel dopoguerra scegliendo la Francia per i suoi studi in fisica, per lavorare, divenendone cittadino. Pierre trova dura la scuola. Netty allora, dovendo iscrivere lui al terzo anno e Ruth al primo, sceglie una scuola autogestita ispirata al metodo Frainet. I docenti sono compagni, per i due ragazzi sarà una bella e ricca esperienza. Passano gli anni e i genitori sono sempre più impegnati, le lotte e le iniziative culturali dei tedeschi antinazisti, il convegno a Parigi degli intellettuali antifascisti di tutto il mondo. Netty si reca in Belgio nella regione carbonifera del Borinage, a Mons e Flenu, scende nelle miniere. La Francia le ha impedito di visitare quelle transalpine. Ne nascerà il romanzo “I sette della miniera”. Netty va anche in Spagna a difendere con la forza delle sue idee la Repubblica. Una volta nei complessi trasferimenti tra Barcellona, Madrid, Valencia, riceve, gradita, dell’uva, ma è impolverata, chiede dell’acqua, la lava, la mangia, e poi ha sete e si beve l’acqua. I compagni miliziani ridono di gusto. Di fronte all’imponenza e alla bellezza di Peñíscola, la città di Papa Luna, l’antipapa Benedetto XIII, Netty sente che il suo destino sarà tra terra e mera, nutrito d’esilio. Pierre ricorda le manifestazioni del Fronte Popolare a Parigi e una agghiacciante e significativa mostra fotografica organizzata in Francia nel ’36, dedicata ai campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, eppure l’Europa non ha dato alla storia degli internati comunisti, allora come oggi la giusta e drammatica importanza. E ancora gli amici scrittori sovietici della mamma, che venivano a trovarla, in particolare Ilya Ehrenburg. Arriva l’aprile 1940, la guerra è già in corso, Laszlo ad aprile è al Roland Garros, non per passione tennistica, ma come internato. È infatti un campo di concentramento per tedeschi, anche se antifascisti e cittadini di nazioni alleate dei nazisti, come l’Ungheria che ha ancora alla guida l’ammiraglio senza mare che ha costretto Laszlo e gli altri rivoluzionari a scappare per evitare la morte. Da Roland Garros viene portato a Vernet d’Ariege dove già diecimila tra comunisti e anarchici spagnoli, in fuga dopo la sconfitta della Repubblica, sono internati. Qui impara lo spagnolo, che gli sarà utilissimo in futuro, e tiene corsi di storia, filosofia ed economia marxista per gli internati.

Netty, Pierre e Ruth, scappano da Parigi prima dell’arrivo nazista, a piedi, su carri, treni merci, autocarri, di nuovo a piedi. Sono poi obbligati dall’esercito tedesco a tornare a Parigi. La Gestapo vuole e cerca Anna Seghers, scappano quindi a sud nella repubblica di Vichy a Pamiers, nella zona pirenenica, a nove chilometri dal campo in cui è rinchiuso Laszlo. Per Netty inizia il calvario della ricerca di un visto per scappare, un aiuto è venuto dall’ambasciatore ungherese Karoly, singolare personaggio, contrario a Horty, viene a patti con il regime in cambio di un incarico diplomatico che oltre a onorarlo lo tiene a debita distanza dalla madrepatria. Karoly nel 1938 rinnova a tutti i Radvanyi i documenti. Stringeranno così tra le mani un passaporto che li aiuterà. Tranne Pierre, i Radvanyi lo lasceranno per quello messicano nel 1945. A Marsiglia il Soccorso Rosso Internazionale aiuta in ogni modo possibile i compagni. Ma la situazione è disperata. Poche navi viaggiano, il mare è pericoloso, è teatro di guerra. Anche se commerciali o passeggeri, possono essere bloccate o affondate. Il presidente messicano Lazaro Cardenas invita tutti gli intellettuali antifascisti a raggiungere la patria di Villa e Zapata, vengono pubblicate liste di invitati, tra loro anche Anna Seghers. Netty Radvanyi si presenta al console messicano di Marsiglia, Gilberto Bosques. Gentile e onorato riceve la scrittrice, le chiede i documenti e legge: “Netty Radvanyi”. Gli sorge qualche dubbio. Anna – Netty dovrà tornare con testimoni che confermino la sua identità. Bosques concede il visto. Per lei. Netty chiarisce subito che senza il marito e i figli non partirà. Altri giorni, altra attesa, altri rischi, altre preoccupazioni. Infine il visto d’ingresso per tutti in Messico. Inizia una nuova avventura sul filo del pericolo. Bosques attira su di sé l’odio dei nazisti, lo arresteranno e deporteranno nel ’43 nel campo di concentramento di Bad Godesberg. Sopravvissuto e liberato, tornato in Messico, scriverà: “Ho applicato la politica del mio paese, una politica di aiuto, di sostegno materiale e morale agli eroici difensori della Repubblica spagnola, ai coraggiosi che hanno combattuto contro Hitler, Mussolini, Franco, Petain e Laval.”

I Radvanyi partono su un cargo commerciale. Con loro tra gli esuli, intellettuali di tutta Europa, spagnoli e catalani che piangono alla vista, da lontano, di Barcellona. La guerra li obbliga a approdi e arresti, in Algeria, in Marocco. In Martinica, territorio francese delle Antille, sono internati, ripartono per la Repubblica Dominicana, il dittatorie Rafael Leónidas Trujillo riceve tutti con onore, e fornisce acqua e sapone, letti comodi e ricevimenti. Ha ribattezzato la capitale Santo Domingo in Città Trujillo e vuole cercare di convincere gli esuli a contribuire allo sviluppo della nazione. In effetti Trujillo è un dittatore illuminato, ovunque ci sono le sue fotografie, ma fa anche costruire case, scuole, strade e presidi medici. La maggioranza assoluta degli esuli comunque riparte. I Radvanyi che hanno un visto di ingresso per il Messico, vorrebbero però trattenersi a New York, dove una folta comunità di tedeschi antinazisti è già presente.

Ma a Ellis Island sono bloccati, perché Ruth è miope, ma i medici pensano abbia problemi nervosi. I Radvanyi guardano da lì la statua della libertà. Prendono quindi la via del Messico, la nave fa scalo all’Avana, ma non possono scendere. Ne ammirano la bellezza e il Malecon dalla nave. Sbarcano finalmente a Vera Cruz e da lì risalgono a Città del Messico, subito affascinati dai luoghi e dal popolo.

La storia scorre veloce, prima vivono in un palazzo in calle Rio de la Plata 25, quindi in calle Industria 215. Pierre studia alla scuola francese e sogna Parigi. I genitori lottano e organizzano attività, incontrano gli amici Pablo Neruda, Tina Modotti, il pittore muralista Javier Guerrero, Firda Kahlo e Diego Rivera. Nel ’45 Pierre, finiti gli studi superiori e finita la guerra, chiede alla mamma di partire. L’ambasciatore statunitense è dubbioso nel concedere il visto di transito a un giovane con un passaporto ungherese vecchio, consumato e di una nazione, il regno d’Ungheria, fascista e alleata dei nazisti, una nazione che non esiste di fatto più perché l’Armata Rossa sta entrando a Budapest. Interviene Anna, il suo romanzo “La settima croce” è stato tradotto e stampato negli Stati Uniti così come “La gita delle ragazze morte”. Da “La settima croce” è stato realizzato un film con Spancer Tracy a Hollywood. L’ambasciatore capisce. Scriverà lui stesso alla macchina da scrivere il visto, applicherà la fotografia, chiamerà alcuni funzionari dell’ambasciata e intimerà a Pierre di giurare di non attentare alla vita del presidente degli Stati Uniti, è la prassi. Pierre sorridendo, ovviamente, giura.

Anna Seghers tornerà in Germania nel 1947, a Parigi abbraccia Pierre. Poi solo un treno militare la potrà portare e la porterà a Berlino. Pierre studia fisica con i Curie. I genitori e i figli della famiglia Radvanyi nel dopoguerra, nel tempo della guerra fredda, sceglieranno la loro strada. Anna Seghers senza esitazione e senza risparmio personale sarà la voce della letteratura della DDR, Laszlo, lasciati gli incarichi universitari che l’hanno visto precursore degli studi sociologici in Messico, raggiungerà Anna nel ’52, poco dopo anche Ruth, laureata in medicina a Parigi sceglierà Berlino. A Parigi resta Pierre, per una scelta che vale una vita.

Pierre, alla fine mi regala una gioia del tutto inaspettata. Gli chiedo se Anna sia stata in Italia. Mi risponde di sì, per quanto ne sa non a Roma o a Venezia. A Milano, agli inizi degli anni trenta. Io, che sono di Milano, sono contento di sapere che abbia mosso i suoi passi tra il duomo e il cenacolo, in galleria, fino a piazza Scala. Per luoghi che sono a me cari.

Parigi – 17 giugno ’09

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