di Davide Rossi
Amare Anna Seghers ed essere a Milano il 27 gennaio 2007 impone prima di tutto obblighi, non formali, ma morali, etici, profondi. La giornata della memoria offre la possibilità di partecipare ad un intenso spettacolo teatrale: “C’era un’orchestra ad Auschwitz”, in scena due ragazze meravigliose e affascinanti, Annabella di Costanzo e Elena Lolli. Prima dell’inizio molte, troppe, inutili parole politiche, oltre alla commossa memoria di un superstite. Nessuno che ricordi come i comunisti e i sindacalisti siano stati i primi a finire in campo di concentramento, perché su di essi per primi si è abbattuto l’odio sterminatore del nazismo.
Nel ’33 i comunisti sono perseguitati, incarcerati, torturati, uccisi. Anna, appena liberata dalla prigione, riesce a raggiungere Praga per iniziare un lungo esilio, quando nella terribile notte del 10 maggio ’33 il rogo dei libri arde in Unter den Linden, e tra quelli i suoi scritti, già da qualche mese il campo di concentramento di Dachau, il primo, e così gli altri, ospitano i suoi compagni di partito. Milleduecento i campi messi in opera dai nazisti per i “nemici del popolo tedesco”, certo milioni di ebrei, ma non la maggioranza di coloro che vi sono stati rinchiusi. Per gli ebrei il dramma risultò accresciuto dal fatto d’essere classificati come proprietà privata delle SS, ma non dobbiamo dimenticare che milioni di russi, ucraini, bielorussi, polacchi, ungheresi, cecoslovacchi, jugoslavi, mentre correvano i treni verso est, portando gli ebrei, correvano verso ovest portando tutti coloro che si opponevano all’occupazione nazista, verso il lavoro forzato e la morte sicura nei campi interni al territorio del reich. Tra essi sempre i dirigenti comunisti e socialisti, a partire dal segretario della KPD, il partito comunista tedesco, Ernst Thälmann, ucciso il 18 agosto 1944 nel lager di Buchenwald. Nessuno che ricordi come quel 27 gennaio 1945 l’inizio della libertà e la fine dell’orrore siano portati da alcuni uomini a cavallo, con un berretto inconfondibile, quello con la stella dell’Armata Rossa. Il ruolo di vittime e di liberatori dei comunisti, di quel movimento comunista internazionale che è stato fondamentale per la salvezza dell’Europa, nonché degli altri continenti perché ha innescato il movimento di liberazione dei popoli colonizzati, nessuno lo ricorda. Eppure quaranta milioni di cittadini sovietici sono caduti per la loro e la nostra libertà, nei campi di concentramento nazisti, nei combattimenti, nella Resistenza lungo tutto il territorio dell’URSS, da Leningrado a Stalingrado. Oggi si ricordano, giustamente, omosessuali, ebrei e donne e uomini di diverse fedi, zingari, disabili, ma uno strano silenzio avvolge comunisti, socialisti, sovietici che di quello sterminio sono stati drammatica e considerevole parte.
Quando le luci si abbassano è Fania Fénelon, piccina, esile, cantante e pianista, a raccontarci come il desiderio di sopravvivere possa essere grande a patto che l’amore per gli altri non venga meno e insieme sopravviva nel cuore la forza di indignarsi, di arrabbiarsi, anche nell’estrema disperazione di un luogo di annientamento e distruzione come Auschwitz. L’altra protagonista, Alma Rosé, che dà il nome alla compagnia teatrale, è nipote di Gustav Mahler e nel violino ha sempre trovato e riconosciuto la propria vita. Dirige l’orchestra del campo, composta da detenute ebree, l’unica orchestra femminile mai esistita nei campi di concentramento. Alma e Fania diventano amiche, è il 1944. Mi risuonano le parole che Anna ha lasciato, indelebili, scolpite e ancor oggi leggibili fuori dal campo di concentramento femminile di Ravensbruck: “Sono madri e sorelle, tutte, madri e sorelle di ciascuno di noi. Oggi possiamo studiare e giocare in libertà, alcuni di noi forse non erano ancora nati quando queste donne hanno esposto i loro corpi, esili e fragili, come scudi lungo tutto il tempo del terrore fascista, la loro scelta e la loro determinazione hanno protetto e difeso noi e il nostro futuro.” Alma muore, Fania viene tradotta a Bergen Belsen, prima dell’arrivo ad Auschwitz dei sovietici, e deve attendere il 15 aprile ’45 per essere liberata. La trovano ridotta a 28 chili con gli occhi serrati e malata di tifo, su un pagliericcio, forse sempre meno cosciente, eppure ancora decisa a vivere. Entra un soldato inglese, Fania conosce francese e inglese. È un giornalista della BBC con in mano un microfono, la incita a parlare, Fania apre gli occhi, lui vuole registrare, far sentire al mondo la voce della vita là dove è stata scientificamente soffocata per organizzare la morte. Fania raccoglie le forze e canta, canta l’ “Internazionale”.